mercoledì 13 luglio 2016

Senza veli

Discriminazione. E’ inutile negarlo, nell’Italia (ed Europa) multietnica e multiculturale che si sta realizzando ad ampie falcate, il tema della “discriminazione” è tra quelli più dibattuti e sensibili.

La discriminazione è perseguita per legge dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che nell’articolo 21 afferma “È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali”.

Tale definizione pone tutti gli uomini uguali di fronte alla legge. Tuttavia se eventuali applicazioni dal punto di vista istituzionale sono piuttosto semplici e lineari, la realtà dei cittadini si fa molto complessa.
Del resto la lotta alla discriminazione fa a pugni con consuetudini culturali a volte millenarie, diffuse ampiamente su tutto il globo terrestre.
Penso a condizioni culturali dove la donna da sempre è stata subordinata al mondo maschile; lo stesso vale per i figli in molte culture considerati alla alla stregua di una “proprietà” dei genitori o meglio del padre. Oppure penso a comportamenti visti non idonei da religioni o da leggi. Tutto un macrocosmo di convinzioni, abitudini, costumi che richiedono tempo per essere eradicati.
Inoltre la lotta alla discriminazione pare in feroce lotta con la libertà di opinione. Se questa la considerio nelle sue accezioni di libertà di religione, credo politico o ideologico, mi trovo in un forte imbarazzo.

Una prova che questo imbarazzo sia ampiamente generalizzato viene anche dalle istituzioni europee, come la Corte Europea, spaccata nel vagliare se vietare il velo islamico sul posto di lavoro sia accettabile o no.

La questione nasce dalla richiesta di un’azienda che ha chiesto di non indossare il velo ad una sua dipendente di religione mussulmana. Personalmente non ci trovo niente di strano dato che equivale a chiedere un certo aspetto nella propria immagine aziendale, ne più ne meno che chiedere di indossare un uniforme aziendale, o alternativamente coprire i tatuaggi sulle braccia con camice lunghe, togliersi il cappello, evitare i piercing, curarsi barba e capelli, evitare pantaloncini corti o per le donne minigonne o scollature da night.

Peccato che due avvocati generali della Corte di Giustizia Europea abbiano dato due conclusioni antitetiche alla vicenda, entrambe legittime e comprensibili.

Da un lato si asserisce che "Una politica aziendale che impone a una dipendente di togliere il velo islamico quando si trova a contatto con i clienti costituisce un'illegittima discriminazione diretta". Dall’altro “Il divieto a indossare il velo è invece legittimo, se risponde a una regola aziendale di neutralità religiosa e ideologica”.

Ora saranno i giudici a vagliare la decisione che in un modo o nell’altro probablimente segnerà un confine importante nella definizione delle libertà individuali dei cittadini europei.


L'articolo commenta quello dell'Ansa: http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2016/07/13/corte-ue-divisa-su-divieto-velo-a-lavoro_cdbcccb5-19a3-462e-b2bc-5ae6b54416c1.html