mercoledì 8 maggio 2019

Fascismi, Altaforte e le paure.



Risultati immagini per salone del libro torino 2019


Credo che sulla presenza di Altaforte al salone del libro si stia facendo una gran confusione. Ed una pessima figura da parte delle forze antifasciste.
Al giorno d’oggi parlare di fascismo è difficile forse più di quando ero bambino io, quando la dicotomia tra rossi e neri era assolutamente radicata; troppo fresche le ferite di una dittatura e di una dolorosa guerra civile.
Oggi per molti fascismo, socialismo, comunismo e antifascismo sono cose vecchie, credo quasi incomprensibili per i giovani, che al massimo possono ispirarsi a simboli e iconografie che sono sentiti veramente solo da vecchi nostalgici.
Eppure, sorprendentemente sono più vivi che mai gruppi e persone che si dichiarano fascisti, e con essi tutta una produzione culturale che li accompagna.
D’altro canto, sono veramente pochi i nostalgici della falce e martello, ed anzi il maggior partito che storicamente portava alto questo simbolo, ha annacquato le sue radici con l’acqua santa democristiana, ispirandosi a un vago progressismo borghese americano.
A tenere vivo un concetto di sinistra oggi sembra forse essere solo l’antifascismo, e dietro questo spauracchio la sinistra cerca di unire ciò che è oggi ridotto in brandelli.

Ecco che forse qui sta la ragione di una polemica ridicola e sterile nei confronti del Salone del Libro di Torino, che ospita tra i tanti editori anche Altaforte, che ne più ne meno di tante case editrici indipendenti porta al pubblico una lettura della realtà “alternativa” alla cultura mainstream. Ossia una casa editrice eroica, non fosse che l’amministratore unico Francesco Polacchi si è dichiarato apertamente fascista e membro della formazione politica neofascista Casapound con dichiarazioni di questo tipo: “Sì sono fascista. Mussolini il miglior statista italiano, Lo dico senza problemi”. Dalle parole ai fatti, Polacchi risulta protagonista di numerose azioni violente e aggressioni di stampo fascista nell'arco di tutta la sua vita.
La risposta degli intellettuali e dei politici di sinistra è stata ampiamente prevedibile: boicottaggio del ‘Salone’ con un “O loro o noi”.
Premetto che da giornalista sono a favore della libertà di stampa e di espressione facendo mio il motto "Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”. Quindi ritengo che sia sempre necessario ascoltare tutte le voci (anche quelle sgradevoli e sgradite) per leggere la realtà.
Risultati immagini per io sono matteoAnche in questo caso trovo che la sinistra continui a non capirci nulla di come funziona la comunicazione al giorno d’oggi. L’intransigenza e l’incapacità di leggere e comprendere le dinamiche, fatta di negazione e condanna e non di analisi e confronto, ha la spiacevole controindicazione di dare visibilità e importanza a quello che in realtà vorrebbe combattere.
Decine di voci che s’alzano comprensibilmente contro Altaforte e Polaccchi, e i conseguenti titoli sui giornali, hanno avuto l’effetto  di spingermi a capire cosa sia questa realtà, ed infine, a scriverne in questo articolo. L’indignazione di sinistra, ha sicuramente fatto per Altaforte tanta pubblicità quanta mai questa casa editrice controversa avrebbe mai potuto permettersi o sognarsi, facendola uscire dall'ambiente underground.
Chiaramente notevole è anche la pubblicità fatta al libro intervista a Matteo Salvini, libro pubblicato da Altaforte ma ben presente sugli scaffali delle librerie.

Insomma, la sinistra farebbe meglio ad ignorare piuttosto che indignarsi. Ignorare ma agire, magari con una bella tirata alla giacchetta di qualche magistrato. Se Casapound è fascista va fatta definitivamente chiudere. Chi si dichiara fascista va punito o fatto ragionare. Chi è violento, con l’aggravante fascista, va arrestato, e rieducato. Il Fascismo è bandito dalla Costituzione: facciamola funzionare.
E lasciamo invece agli intellettuali il confronto che dovrebbe essere il loro mestiere, per dimostrare senza paura quali siano i valori più importanti e indissolubili della nostra società.




Fonti e riferimenti bibliografici per approfondimenti








sabato 4 maggio 2019

Chiusure


Oggigiorno si parla spesso di chiusure, per lo più nello scontro politico/ideologico: chiusura delle frontiere, dei porti, dei campi nomadi, dei centri storici. 

Possono esserci ragioni condivisibili in queste “chiusure” come in ogni tipo di “chiusura”, tuttavia entrando in questi grandi temi da giornale nazionale, da dibattito pubblico, uno spazio dove il privato è raramente coinvolto se non per qualche forma di senso etico, si finisce sempre per distinguere i “buoni” dai “cattivi”.

Oggi facendo una passeggiata per le strade in cui sono cresciuto ho invece notato che la chiusura è nel quotidiano, nelle piccole azioni individuali, del singolo cittadino, del condominio, o della comunità locale per arrivare alle amministrazioni locali. Tante piccole forme di “chiusura” che formano la mentalità che arriva poi ad accettare come normale e plausibile ogni altra forma di chiusura su grande scala e nei grandi temi anche nazionali.

Sono da sempre una persona di periferia, ovvero quella zona che vive più fortemente le trasformazioni urbane e quindi anche sociali.
Da bambino abitavo a Loreto, dove ho vissuto l'ultima fase del passaggio dalla periferia rurale alla periferia urbana. Ho visto sparire le ultime fattorie e strade sterrate dove giocavo in bicicletta per vederle chiudere in cancellate per ville signorili. Ho visto i bambini padroni della piazza, cortili e marciapiedi compresi, venire pian piano arretrati dalla diffusione delle auto: prima il traffico che ci impediva di giocare a palla per la strada, poi l'arredo urbano che trasformava la piazza in un giardinetto togliendoci le piante che facevano da pali per le porte. Infine, rifugiati in cortile abbiamo dovuto abdicare quando l'amministratore ha concesso posti auto nel cortile. Per fortuna a quel punto ero adolescente e ho iniziato a vivere a Longuelo dove da poco mi ero trasferito.

Longuelo di fatto era la nuova vera periferia della città. Li ho visto costruire gli ultimi palazzi che hanno soppiantato i residui della civiltà agricola che contraddistingueva solo poche decine di anni prima il quartiere. Il campo dove si installava il circo si è fatto piazza, la collinetta dove si andava a fare cross con bici e moto è diventata un polo scolastico, lo stagno sotto casa mia una villetta a schiera. E li il senso di “chiusura” ha iniziato a farsi largo, una chiusura di spazi e una chiusura di sguardi.

Oggi vivo ancora più in periferia, nel primo paese fuori dalla città, in quella Curno che da ragazzo ricordavo un paesino che attraversavo gioiosamente nelle mie gite fuoriporta in bicicletta, e ormai devastato da una cementificazione disumana voluta da troppi interessi commerciali, ma che ancora non si arresta in mano ad amministratori incapaci se non consenzienti.

Tuttavia, il mio percorso sulla “chiusura” torna alle piccole cose, su un percorso a piedi di un chilometro a cominciare del campetto del Borghetto, seguendo un filo tra i campi di pallone della mia giovinezza.

Il campo del Borghetto, quando avevo vent'anni era un semplice campo di calcio, due porte senza reti, o con le reti consunte, erba raramente tagliata, ma controllata del calpestio di piedi giovani e meno giovani, che con due pedalate partendo da Longuelo o dalle più vicine villette, passavano pomeriggi a giocare a calcio.
Non che non esistessero problemi come i palloni calciati su punizione nel giardino del vicino, che a volte era gentile e ce li rendeva immediatamente, a volte no o a volte ce li rendeva bucati... Ma era uno spazio libero dove anche quando, un po' più grande, allenavo una scalcinata squadra di amici, non avendo ancora un campo nostro, iniziammo la preparazione.

L'evoluzione negli anni seguenti fu rapida, prima una recinzione con una cancellata ancora aperta, ma con un'odiosa scritta appesa all’ingresso: “L'uso del campo è riservato ai residenti di Mozzo”.
Poi il campo è stato riqualificato, porte nuove, qualche gioco per i bambini, infine una casetta per l'associazione dei residenti del Borghetto, che hanno avuto infine la dotazione delle chiavi di accesso... Cancello chiuso e campo definitivamente “privatizzato”.



I miei passi verso casa mi hanno quindi condotto lungo via Aldo Moro, dove all'incrocio con via Galilei mi aspetta una piccola novità. Il fazzoletto di prato incolto che da sempre ha caratterizzato quel passaggio, è stato recintato. Una rete leggera, con un ingresso semilibero con una catena, ma è un segno che qualcuno anche lì ha voluto dare il segno di una “privatizzazione” di quell'angolino comune.




Pochi metri e il sentimento si fa più triste. 
Per anni sono andato al Parco Ca' del Lupo, per le passeggiate veloci da casa dei miei. In piccolo angolo di quiete isolato dalla strada e dalla fabbrica limitrofa.  

Li era divertente camminare sulle ghiande quando cadevano, fare un giro o due del tracciato, contando le radici che si prendevano la rivincita sul selciato, e guardare talvolta dei bambini giocare a portine nel prato. Prato che per un certo periodo era diventato anche un campo di pallavolo, così raro nelle nostre zone. 

Purtroppo, oggi il passaggio al prato del parco è sbarrato da un portoncino. 
L'area è divenuta area di addestramento cani per la protezione civile. 
Sarà anche una scelta utile e importante, m intanto io mi privo, come altri cittadini, di un pezzo piacevole della mia passeggiata e i bambini di un secondo campo di calcio libero.

Qualche centinaio di metri più avanti lasciamo Mozzo ed entriamo a Curno imboccando via Trieste e davanti al campetto di via Trieste.
Qui la mia storia è più profonda. Al “Campèt” o Campetto come lo chiamavamo noi senza grandi pretese leghiste, ci ho passato tantissimi momenti della mia giovinezza.
Intorno ai vent'anni era praticamente la mia seconda casa passandoci talvolta da mattina a sera, rientrando a casa solo per mangiare e dormire.


Il campetto era il rifugio per il nostro piccolo ma variabile gruppo di amici, adolescenti e complicati. Era il teatro di interminabili sfide a calcetto, o partite a pallavolo con le ragazze usando le piccole porte come rete.  Consumavamo il perimetro asfaltato male, passeggiando mezzore in tondo raccontandoci le nostre vicende amorose. A maggio le ragazze coglievano e poi condividevano le ciliege di un albero lasciato crescere ai margini del muro, a San Lorenzo contavamo le stelle cadenti, e durante le notti estive ci sdraiavamo sulla tre panchine a parlare tra noi e all'infinito. Era un punto di ritrovo, i pochi parcheggi della via ospitavano la mia macchina pronta a condurci alle prime feste dell'Unità in provincia per poi ritornavi a condividere con gli altri amici le nostre avventure. Il calcio ovviamente però era il centro delle nostre attività, giocavamo sotto il sole cocente impanandoci con la polvere, rinfrescandoci con la fontanella, come pure sotto pioggia e neve. Non mancavamo all'appuntamento con il pallone e gli amici nemmeno il primo dell'anno, appena finito di mangiare via a giocare sul campo ghiacciato.
Il campetto era indubitabilmente la nostra casa comune: riempivamo di scritte le nostre panchine, ma ci arrabbiavamo quando qualcuno provava a rovinarle, tenevamo pulito laddove possibile, addirittura tagliammo la cima di una pianta perché faceva ombra a un faretto, e riverniciammo le porte, e infine guardavamo male gli “invasori di campo” tenendo lontane le cattive compagnie, avevamo anche il nostro bagno pubblico tra gli alberelli posti all'angolo buio in cui ragazzi e ragazze andavamo indistintamente sempre con il massimo rispetto.
Talvolta facevamo cagnara e una volta ci toccò litigare con una signora anziana. Dopo un po' di inevitabili tensioni si giunse ad un accordo, quando abbassava la tapparella era il segnale che noi dovevamo abbassare a nostra volta i toni. Lei decise di non chiamare i vigli, ci conosceva si sentiva più sicura se sapeva che eravamo noi a presidiare il parco.



Oggi il campetto è stato “sistemato”: Porte nuove, panchine nuove, selciato nuovo, che ha portato via il ciliegio e le piante del nostro gabinetto. La sistemazione ha anche sradicato la fontanella, e alla chiusura automatica del campetto. Non so se i ragazzi del quartiere ci vanno ancora, ovviamente ci passo quando loro sono a scuola o a pranzo, ma mi sembra più ordinato e meno vissuto. Certo non avrà più i sognatori sino alle due di notte.





Rientrando verso casa, sulle vecchie tracce, trovi infine il più triste dei cancelli. Tra via Trieste e il parcheggio di casa mia in via Perosi, da sempre c'era un passaggio “clandestino”. 

Tra il punto in cui s'interrompe la strada e il parcheggio, c'è mezzo metro di dislivello marcato da rete di delimitazione, che in breve tempo a furia di essere scavalcata si era sfondata e poi divelta, consentendo a tutti di passare. 

Eravamo certo noi ragazzi della via a usarla come scorciatoia per il campetto, ma era anche il passaggio per i ragazzi che da via Trieste andavano alle vicine scuole a Longuelo evitando di allungarla o di dover passare per la trafficata via Longuelo.




Per anni si è parlato di mettere in sicurezza il passaggio con qualche svicolo o scaletta,  ma da qualche settimana anziché sistemarlo qualcuno è intervenuto mondando una cancellata metallica che di fatto ha chiuso questo passaggio tanto piccolo quanto prezioso nella sua clandestina intimità, che da sempre mi ha dato il senso di voler cercare e creare il passaggio per comunicare anche nelle maniere meno formali, su strade non tracciate, ed oltre i recinti in cui volenti o nolenti ci stanno e ci stiamo chiudendo attorno.

Campi chiusi, parchi privatizzati, passaggi sbarrati, recinzioni ovunque . Una difesa del privato e della sicurezza, che rende meno semplice e piacevole, chiudendo gli orizzonti,  senza cancellare le paure.