Oggigiorno si parla spesso di chiusure, per lo più nello
scontro politico/ideologico: chiusura delle frontiere, dei porti, dei campi
nomadi, dei centri storici.
Possono esserci ragioni condivisibili in queste “chiusure”
come in ogni tipo di “chiusura”, tuttavia entrando in questi grandi temi da
giornale nazionale, da dibattito pubblico, uno spazio dove il privato è
raramente coinvolto se non per qualche forma di senso etico, si finisce sempre
per distinguere i “buoni” dai “cattivi”.
Oggi facendo una passeggiata per le strade in cui sono
cresciuto ho invece notato che la chiusura è nel quotidiano, nelle piccole
azioni individuali, del singolo cittadino, del condominio, o della comunità
locale per arrivare alle amministrazioni locali. Tante piccole forme di
“chiusura” che formano la mentalità che arriva poi ad accettare come normale e
plausibile ogni altra forma di chiusura su grande scala e nei grandi temi anche
nazionali.
Sono da sempre una persona di periferia, ovvero quella zona
che vive più fortemente le trasformazioni urbane e quindi anche sociali.
Da bambino abitavo a Loreto, dove ho vissuto l'ultima fase
del passaggio dalla periferia rurale alla periferia urbana. Ho visto sparire le
ultime fattorie e strade sterrate dove giocavo in bicicletta per vederle
chiudere in cancellate per ville signorili. Ho visto i bambini padroni della
piazza, cortili e marciapiedi compresi, venire pian piano arretrati dalla
diffusione delle auto: prima il traffico che ci impediva di giocare a palla per
la strada, poi l'arredo urbano che trasformava la piazza in un giardinetto
togliendoci le piante che facevano da pali per le porte. Infine, rifugiati in
cortile abbiamo dovuto abdicare quando l'amministratore ha concesso posti auto
nel cortile. Per fortuna a quel punto ero adolescente e ho iniziato a vivere a
Longuelo dove da poco mi ero trasferito.
Longuelo di fatto era la nuova vera periferia della città. Li
ho visto costruire gli ultimi palazzi che hanno soppiantato i residui della
civiltà agricola che contraddistingueva solo poche decine di anni prima il
quartiere. Il campo dove si installava il circo si è fatto piazza, la
collinetta dove si andava a fare cross con bici e moto è diventata un polo
scolastico, lo stagno sotto casa mia una villetta a schiera. E li il senso di
“chiusura” ha iniziato a farsi largo, una chiusura di spazi e una chiusura di
sguardi.
Oggi vivo ancora più in periferia, nel primo paese fuori
dalla città, in quella Curno che da ragazzo ricordavo un paesino che
attraversavo gioiosamente nelle mie gite fuoriporta in bicicletta, e ormai
devastato da una cementificazione disumana voluta da troppi interessi
commerciali, ma che ancora non si arresta in mano ad amministratori incapaci se
non consenzienti.
Tuttavia, il mio percorso sulla “chiusura” torna alle piccole
cose, su un percorso a piedi di un chilometro a cominciare del campetto del
Borghetto, seguendo un filo tra i campi di pallone della mia giovinezza.
Il campo del Borghetto, quando avevo vent'anni era un
semplice campo di calcio, due porte senza reti, o con le reti consunte, erba
raramente tagliata, ma controllata del calpestio di piedi giovani e meno
giovani, che con due pedalate partendo da Longuelo o dalle più vicine villette,
passavano pomeriggi a giocare a calcio.
Non che non esistessero problemi come i palloni calciati su
punizione nel giardino del vicino, che a volte era gentile e ce li rendeva
immediatamente, a volte no o a volte ce li rendeva bucati... Ma era uno spazio
libero dove anche quando, un po' più grande, allenavo una scalcinata squadra di
amici, non avendo ancora un campo nostro, iniziammo la preparazione.
L'evoluzione negli anni seguenti fu rapida, prima una
recinzione con una cancellata ancora aperta, ma con un'odiosa scritta appesa all’ingresso:
“L'uso del campo è riservato ai residenti di Mozzo”.
Poi il campo è stato riqualificato, porte nuove, qualche
gioco per i bambini, infine una casetta per l'associazione dei residenti del
Borghetto, che hanno avuto infine la dotazione delle chiavi di accesso...
Cancello chiuso e campo definitivamente “privatizzato”.
I miei passi verso casa mi hanno quindi condotto lungo via
Aldo Moro, dove all'incrocio con via Galilei mi aspetta una piccola novità. Il
fazzoletto di prato incolto che da sempre ha caratterizzato quel passaggio, è
stato recintato. Una rete leggera, con un ingresso semilibero con una catena,
ma è un segno che qualcuno anche lì ha voluto dare il segno di una
“privatizzazione” di quell'angolino comune.
Pochi metri e il sentimento si fa più triste.
Per anni sono
andato al Parco Ca' del Lupo, per le passeggiate veloci da casa dei miei. In
piccolo angolo di quiete isolato dalla strada e dalla fabbrica limitrofa.
Li era divertente camminare sulle ghiande
quando cadevano, fare un giro o due del tracciato, contando le radici che si
prendevano la rivincita sul selciato, e guardare talvolta dei bambini giocare a
portine nel prato. Prato che per un certo periodo era diventato anche un campo
di pallavolo, così raro nelle nostre zone.
Purtroppo, oggi il passaggio al
prato del parco è sbarrato da un portoncino.
L'area è divenuta area di
addestramento cani per la protezione civile.
Sarà anche una scelta utile e
importante, m intanto io mi privo, come altri cittadini, di un pezzo piacevole
della mia passeggiata e i bambini di un secondo campo di calcio libero.
Qualche centinaio di metri più avanti lasciamo Mozzo ed
entriamo a Curno imboccando via Trieste e davanti al campetto di via Trieste.
Qui la mia storia è più profonda. Al “Campèt” o Campetto come
lo chiamavamo noi senza grandi pretese leghiste, ci ho passato tantissimi
momenti della mia giovinezza.
Intorno ai vent'anni era praticamente la mia seconda casa
passandoci talvolta da mattina a sera, rientrando a casa solo per mangiare e
dormire.
Il campetto era il rifugio per il nostro piccolo ma variabile
gruppo di amici, adolescenti e complicati. Era il teatro di interminabili sfide
a calcetto, o partite a pallavolo con le ragazze usando le piccole porte come
rete. Consumavamo il perimetro asfaltato
male, passeggiando mezzore in tondo raccontandoci le nostre vicende amorose. A
maggio le ragazze coglievano e poi condividevano le ciliege di un albero
lasciato crescere ai margini del muro, a San Lorenzo contavamo le stelle
cadenti, e durante le notti estive ci sdraiavamo sulla tre panchine a parlare
tra noi e all'infinito. Era un punto di ritrovo, i pochi parcheggi della via
ospitavano la mia macchina pronta a condurci alle prime feste dell'Unità in
provincia per poi ritornavi a condividere con gli altri amici le nostre
avventure. Il calcio ovviamente però era il centro delle nostre attività,
giocavamo sotto il sole cocente impanandoci con la polvere, rinfrescandoci con
la fontanella, come pure sotto pioggia e neve. Non mancavamo all'appuntamento
con il pallone e gli amici nemmeno il primo dell'anno, appena finito di
mangiare via a giocare sul campo ghiacciato.
Il campetto era indubitabilmente la nostra casa comune:
riempivamo di scritte le nostre panchine, ma ci arrabbiavamo quando qualcuno
provava a rovinarle, tenevamo pulito laddove possibile, addirittura tagliammo
la cima di una pianta perché faceva ombra a un faretto, e riverniciammo le
porte, e infine guardavamo male gli “invasori di campo” tenendo lontane le
cattive compagnie, avevamo anche il nostro bagno pubblico tra gli alberelli
posti all'angolo buio in cui ragazzi e ragazze andavamo indistintamente sempre
con il massimo rispetto.
Talvolta facevamo cagnara e una volta ci toccò litigare con
una signora anziana. Dopo un po' di inevitabili tensioni si giunse ad un
accordo, quando abbassava la tapparella era il segnale che noi dovevamo
abbassare a nostra volta i toni. Lei decise di non chiamare i vigli, ci
conosceva si sentiva più sicura se sapeva che eravamo noi a presidiare il
parco.
Oggi il campetto è stato “sistemato”: Porte nuove, panchine
nuove, selciato nuovo, che ha portato via il ciliegio e le piante del nostro
gabinetto. La sistemazione ha anche sradicato la fontanella, e alla chiusura
automatica del campetto. Non so se i ragazzi del quartiere ci vanno ancora,
ovviamente ci passo quando loro sono a scuola o a pranzo, ma mi sembra più
ordinato e meno vissuto. Certo non avrà più i sognatori sino alle due di notte.
Rientrando verso casa, sulle vecchie tracce, trovi infine il
più triste dei cancelli. Tra via Trieste e il parcheggio di casa mia in via
Perosi, da sempre c'era un passaggio “clandestino”.
Tra il punto in cui s'interrompe la
strada e il parcheggio, c'è mezzo metro di dislivello marcato da rete
di delimitazione, che in breve tempo a furia di essere scavalcata si era
sfondata e poi divelta, consentendo a tutti di passare.
Eravamo certo noi
ragazzi della via a usarla come scorciatoia per il campetto, ma era anche il
passaggio per i ragazzi che da via Trieste andavano alle vicine scuole a Longuelo
evitando di allungarla o di dover passare per la trafficata via Longuelo.
Per anni si è parlato di mettere in sicurezza il passaggio con qualche svicolo o scaletta, ma da qualche settimana anziché sistemarlo qualcuno è intervenuto mondando una cancellata
metallica che di fatto ha chiuso questo passaggio tanto piccolo quanto prezioso
nella sua clandestina intimità, che da sempre mi ha dato il senso di voler
cercare e creare il passaggio per comunicare anche nelle maniere meno formali,
su strade non tracciate, ed oltre i recinti in cui volenti o nolenti ci stanno
e ci stiamo chiudendo attorno.
Campi chiusi, parchi privatizzati, passaggi sbarrati, recinzioni ovunque . Una difesa del privato e della sicurezza, che rende meno semplice e piacevole, chiudendo gli orizzonti, senza cancellare le paure.